La riduzione della fertilità conseguente ai trattamenti oncologici ha un grande impatto sulla qualità di vita delle giovani pazienti con cancro. Il progressivo miglioramento della prognosi di queste pazienti ha reso ancora più evidente la necessità di tutelarne la fertilità, per poter premettere loro di soddisfare i propri desideri riproduttivi una volta superata la malattia.
Tuttavia, nonostante un’alta percentuale di giovani pazienti manifesti il desidero di diventare madre dopo il cancro, attualmente meno del 10% porta a termine almeno una gravidanza dopo la diagnosi di tumore.
Per questi motivi, oggi tutte le giovani pazienti dovrebbero poter accedere a un counseling riproduttivo e, se interessate, usufruire delle strategie attualmente a disposizione per la preservazione della fertilità nei pazienti oncologici.
In particolare, ci sono 3 domande a cui l’oncologo dovrebbe rispondere alla prima visita in ambulatorio:
Quali sono i trattamenti oncologici che mettono rischio la mia fertilità? E quanto è grande questo rischio?
L’entità del rischio varia notevolmente in base alle caratteristiche individuali e al tipo di trattamento, per cui ogni paziente rappresenta un caso a sé stante.
Per quanto riguarda le caratteristiche individuali, le pazienti meno giovani e/o che hanno già una storia pregressa di trattamenti per infertilità hanno un maggior rischio di sviluppare infertilità conseguente ai trattamenti per la loro malattia oncologica.
Tra i trattamenti oncologici, la chemioterapia e la radioterapia hanno una comprovata azione gonadotossica. Per la chemioterapia, la tossicità varia in base alla dose, alla posologia e al tipo di farmaco.
Gli schemi chemioterapici più gonadotossici sono quelli a base di alchilanti (come ad esempio alcuni schemi utilizzati nella terapia del tumore della mammella), con tassi di infertilità che possono raggiungere l’80% in assenza di strategie di preservazione della fertilità.
La radioterapia influisce sulla fertilità solo nel caso in cui le ovaie vengano incluse nel campo di irradiazione, con livelli di tossicità che dipendono dalla dose e dal suo frazionamento.
Le terapie endocrine adiuvanti utilizzate nel tumore della mammella non hanno una comprovata azione gonadotossica ma, interferendo con il normale ciclo ovarico, possono associarsi a un aumentato rischio di menopausa precoce.
Sappiamo per esempio che il tamoxifene è associato a un lieve aumento del rischio di amenorrea permanente, mentre pochi dati sono disponibili per altre terapie endocrine (analoghi dell’LHRH e inibitori dell’aromatasi).
Tuttavia, il reale problema della terapia endocrina adiuvante è la sua durata, che va dai 5 a 10 anni a seconda dei casi, spostando notevolmente in avanti l’età in cui le pazienti possono tentare una gravidanza.
Al momento non è noto con certezza l’effetto sulla fertilità dei nuovi farmaci a bersaglio molecolare, ma i pochi dati a disposizione suggeriscono che non vi sia un aumentato rischio di infertilità con il loro utilizzo.
Infine, nel caso dei tumori ginecologici (ovaio, utero e cervice uterina), la stessa chirurgia oncologica compromette la fertilità, anche se oggi in casi selezionati possono essere applicate tecniche chirurgiche meno invasive.
Intraprendere una gravidanza dopo il tumore è rischioso per me o per il feto?
La gravidanza dopo una diagnosi di tumore non comporta alcun rischio per la paziente in termini di prognosi oncologica.
Nonostante in passato si ritenesse che la gravidanza potesse aumentare il rischio di ricaduta nelle pazienti con tumore della mammella ormonosensibile, oggi le evidenze scientifiche dimostrano che le donne che intraprendono una gravidanza dopo una diagnosi di tumore mammario non hanno una prognosi peggiore.
Non sono invece attualmente disponibili dati sulla prognosi di pazienti con diagnosi di tumore mammario che interrompano anticipatamente la terapia ormonale adiuvante per tentare una gravidanza.
Per quanto riguarda i rischi per il feto, in base ai dati attualmente disponibili non sembra esserci una aumenta incidenza di difetti genetici e malformazioni congenite nei nati da donne
precedentemente trattate con terapie oncologiche. Alcuni studi hanno evidenziato una maggiore
incidenza di complicazioni da parto, tagli cesarei, parti pre-termine e neonati con basso peso alla nascita.
Tuttavia i dati a disposizione sono ancora pochi, e saranno necessari ulteriori studi per chiarire se vi sia un aumentato rischio di complicazioni in gravidanza nelle donne sopravvissute a un cancro.
In che modo posso preservare la mia fertilità durante i trattamenti oncologici?
La scelta di quali strategie mettere in atto dipende da molteplici fattori, tra cui i principali sono l’età della paziente, il tipo di trattamento oncologico, e il rischio che la malattia oncologica possa metastatizzare alle ovaie.
La criopreservazione degli ovociti e la soppressione gonadica con LHRH-analogo sono oggi considerate le due tecniche standard.
La criopreservazione degli ovociti consiste nel prelevare e congelare alcuni ovociti maturi della paziente, che potranno poi essere utilizzati per la fecondazione assistita una volta terminati i trattamenti oncologici.
Affinché venga raccolto un numero adeguato di ovociti (minimo 8-10), le pazienti devono sottoporsi a un ciclo di stimolazione ovarica con terapia ormonale della durata di 2-3 settimane.
Pertanto, tale proceduta è indicata solo in pazienti che abbiano una adeguata riserva ovarica di partenza e che possano rinviare l’inizio delle terapie oncologiche di qualche settimana.
Nonostante in passato vi fosse il timore che il picco ormonale causato dalla stimolazione ovarica potesse influenzare negativamente la prognosi della pazienti con tumore mammario ormonosensibile, i dati oggi a disposizione mostrano che anche queste pazienti possono
sottoporsi a tale procedura senza aumentare significativamente il proprio rischio di recidiva.
La soppressione gonadica con LHRH-analogo riduce la tossicità ovarica da chemioterapia
inducendo una menopausa farmacologica, ed è indicata nelle pazienti che devono sottoporsi a chemioterapia adiuvante o neoadiuvante per carcinoma mammario.
Tale strategia ha il vantaggio di non essere invasiva, di poter essere iniziata anche solo una settimana prima dell’inizio della chemioterapia, e di poter essere utilizzata insieme ad altre tecniche di preservazione della fertilità, come la criopreservazione degli ovociti.
Tra le tecniche considerate ancora sperimentali, si annoverano la criopreservazione del tessuto ovarico e la trasposizione ovarica (ooforopessi).
La criopreservazione del tessuto ovarico consiste nel prelievo tramite chirurgia laparoscopica del tessuto ovarico e del suo congelamento a bassissime temperature.
Il tessuto ovarico potrà poi essere reimpiantato nella paziente al termine dei trattamenti oncologici. Tale procedura ha il vantaggio di non richiedere previa stimolazione ormonale e permette quindi di evitare la posticipazione delle terapie oncologiche, ed è indicata solo nelle donne con età inferiore ai 38 anni e adeguata riserva ovarica.
Link
www.aimac.it www.salute.gov.it www.aiom.it